Sto passeggiando lungo le strade silenziose e solitarie di Torre Spaccata, nella mia amata Puglia con Dante, il mio labrador. Seguo il percorso delineato dai muretti a secco, opera di mani incallite, mani di artigiani che da secoli tagliano la pietra dolce e friabile di questa terra incastonandone i pezzi senza far uso di cemento e che, per magia, si reggono uno sull’altro tracciando i confini delle proprietà. Un leggero maestrale rinfresca l’aria e increspa le onde del mare che si delinea davanti a me e accende i colori del paesaggio. Il battito d’ali di un’alca torda mi distrae portando il mio sguardo a sud, dove spicca, candida come una perla, la città di Ostuni. Dante drizza il pelo e alza le orecchie, l’eco di un guaito lontano cattura la sua attenzione e incurante del mio richiamo imbocca un sentiero sterrato. Lo inseguo e percorro un valloncello nudo che mi porta ad una masseria apparentemente disabitata. Un bastardino nero sta giocando con il mio cane. Le persiane di una finestra si aprono e dalla penombra dell’interno compare il volto segnato di una donna con un fazzoletto annodato intorno al capo. Mi sorride mentre io faccio un cenno di saluto e mi scuso per essere entrata nella sua proprietà: “non c’erano recinzioni né cancelli”, dico. Lei inclina il capo, appoggia il volto nel palmo della mano e guarda lontano. “Non più.” Mi dice. Io allungo il collo verso la finestra. “Vede?” Continua allungando un braccio. “Là c’era la porcilaia e accanto la stalla mentre quel sagrato era l’aia e poi c’erano campi….”
Con un po’ di fantasia immagino quel luogo pullulare di vita, di uomini che arano e coltivano la terra, macinano il grano, mungono le mucche e preparano i formaggi dolci e teneri tipici di questa regione. E ora? Mi domando quando Lina – così si chiama la donna,- mi indica la porta invitandomi a salire. I gradini della scala sono di pietra consumata dal tempo e dai passi di quanti l’hanno salita. Dalla terrazza la vista è splendida. La terra è coperta da una straordinaria fioritura di margherite gialle che si mescolano con il colore cupo dell’erba medica e il rosso fiammante dei papaveri tessendo, con vitalità e foga, un tappeto dalla trama fitta e variopinta. Il mio sguardo si perde ancora tra mille punti di fuoco vibranti, quello delle erbe aromatiche e dei cespugli fioriti il cui profumo, sospinto dal vento, mi inebria: sembrano i colori di un pittore del rinascimento, composti da misteriosi e segreti pigmenti, mescolati alla rinfusa sulla tavolozza. “Quando è morto Pino, ho lasciato morire con lui l’attività della masseria, ma lui me l’ha lasciata in usufrutto e finché sarò viva, i figli della vedova, non l’avranno. Tanto, cosa vuole, ne faranno un resort. Voglio stare qui fino alla fine, seduta a godermi questo tratto di natura vergine e incontaminata, come solo nella nostra terra la natura può apparire.” Dice offrendomi del succo di melograno. “Qui, la gente è paziente e si è sempre industriata come meglio ha potuto. La pioggia è arrivata da pochi anni, l’hanno portata i cambiamenti climatici, prima sono stati secoli di siccità e anche la cucina ne ha risentito, con i suoi erbaggi tirati su a fatica, la sua frutta saporita benché piccola, i suoi orti, i suoi animali da cortile e ciò che donavano, ma si è supplito alla mancanza d’acqua con gli aromi e i profumi della terra.”
I colori del tramonto danzano nel cielo terso, ringrazio Lina e mi avvio verso casa. Dante, stanco, cammina tranquillo al mio fianco. Ripenso alle parole di Lina e all’accenno alla cucina pugliese, cucina che, di fatto, si divide in tre ceppi.
Ecco, vorrei raccontarvi dei tre modi di cucinare che i pugliesi devono a Federico II perché, nel 1222, distinse la terra di Bari dalla capitanata e dalla Terra d’Otranto. Le tre cucine offrono gli stessi piatti, ma ognuna li differenzia secondo gli usi locali. L’aglio è uno dei componenti, forse il principale, della diversificazione culinaria e, scendendo dal tavoliere alla penisola Salentina, la sua presenza si fa meno massiccia e a un certo punto addirittura scompare per cedere il posto alla cipolla, come avviene nella classica zuppa di pesce alla gallipolina. La grande pianura produce grano, uva e olive, i tre pilastri dell’alimentazione popolare e tutti in Puglia vanno fieri del loro pane a cominciare da quello di Altamura, fatto con il lievito madre, fino alle “frisedde” e alle “panette”, per non parlare della pasta che tutti si ostinano a preparare in casa, “lasagne”, “racchie”, “strascenate”, “troccoli” e altre ancora…
Quando rientro a casa le ombre dei tronchi e delle chiome degli ulivi millenari, vere e proprie sculture, si allungano sul verde del prato inglese da me voluto per vezzo e mai perdonato da mio marito dalle barlettiane origini.
Voglio dirvi cosa mangeremo questa sera: una minestra di fave, un piatto in qualche modo emblematico di questa terra, dal mio taccuino di appunti.
Cucinate 250 grammi di fave secche, rinvenute, con acqua e sale in un tegame di terracotta. A cottura avanzata “razzolatele”, cioè, batterle con un cucchiaio di legno fino a ridurle a purea – mai usare frullini elettrici o minipimer! – Condite la purea con olio crudo e accompagnatela con cicoria amara lessata, oppure cime di rapa e “lambasciuni” anche loro lessati e conditi. Questo piatto si può accompagnare anche con peperoni rossi ripassati al pomodoro. La “ncapriata”, a seconda dei luoghi prende nomi diversi, ma su tutti predomina quello di “favi e fogghi”. La nostra contadina, che se ne intende, nel prepararla ama canticchiare: “di tutti i legumi la fava è la regina/cotta la sera/scaldata la mattina.” Perché, come molte preparazioni popolari, anche questo piatto migliora riposando al fresco nelle madie in cantina, magari accanto al vino Primitivo – perché matura presto – di Manduria, di Cerignola o di Conversano.
“Zia, zia, guarda”, dice mia nipote entrando in cucina. “Sto studiando le monete e su quella da un soldo c’è il castel del Monte, non è quello di Andria, qui in Puglia?”